Il lavoro curato da INGV, United States Geological Survey e Università di Berkeley suggerisce una rilettura del modello secondo cui i terremoti estensionali come quelli dell’Appennino centrale potrebbero essere generati da collassi gravitativi, e non da dislocazioni elastiche
Un nuovo studio, condotto da un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), dello United States Geological Survey (USGS) e il Berkeley Seismology Lab della University of California Berkeley, offre una nuova lettura del modello “Gravimoto” come meccanismo di genesi dei terremoti.
La ricerca, intitolata “Do graviquakes exist?” e appena pubblicata sulla rivista scientifica ‘Bulletin of the Seismological Society of America (BSSA)’, ha analizzato il modello “Gravimoto” proposto nel 2015, secondo il quale, nelle aree del pianeta sottoposte ad estensione crostale (come, ad esempio, in Appennino) gli eventi sismici sarebbero essenzialmente generati da collassi gravitativi, e non dalle dislocazioni elastiche che caratterizzano ogni altro tipo di rottura sismica. Secondo il modello “Gravimoto”, ogni collasso servirebbe a colmare un volume vuoto formatosi in profondità nella crosta terrestre durante il periodo intersismico (vale a dire durante il lasso di tempo che intercorre tra un due grandi terremoti che avvengono sulla stessa faglia).
Per le sole faglie estensionali, o ‘normali’, il modello “Gravimoto” si pone come alternativa al modello ‘classico’ di genesi dei terremoti teorizzato nel 1910 da Harry Fielding Reid, sulla base di osservazioni della faglia che aveva generato il grande terremoto di San Francisco del 1906: secondo questo modello, i terremoti sono generati dal rilascio di energia elastica accumulata nel corso di secoli o millenni (il cosiddetto ‘elastic rebound’).
“Con il nostro studio abbiamo effettuato una rigorosa valutazione del modello Gravimoto, proposto per la prima volta nel 2015 e utilizzato anche per lo studio della sequenza sismica dell’Appennino centrale del 2016”, spiega Luca Malagnini, Dirigente di Ricerca dell’INGV e primo autore dell’articolo. “Questa nostra rilettura critica del modello si è basata sulla teoria sismologica, sul comportamento meccanico della crosta terrestre superiore in presenza di fluidi, sull’evidenza geodinamica e sull’analisi delle deformazioni crostali indotte dai forti terremoti di faglia normale”.
L’analisi presentata nello studio appena pubblicato evidenzia come l’ipotesi di un collasso gravitazionale co-sismico della crosta terrestre non sia in realtà supportata da dati geodetici e da osservazioni sismologiche indipendenti: i sismogrammi e le deformazioni del suolo osservati in occasione della sequenza sismica del 2016, ad esempio, non risultano compatibili con quanto previsto dal modello “Gravimoto” ma, al contrario, appaiono coerenti con il modello classico della dislocazione elastica.
“La teoria classica, formalizzata grazie agli studi di numerosi autori nel corso dei decenni, ha dato un contributo fondamentale alla modellazione moderna dei terremoti”, aggiunge Malagnini. “L’approccio della sismologia allo studio dei terremoti deve essere quello di riprodurre ogni osservazione effettuata durante un evento sismico (ad esempio, le onde di un sismogramma) utilizzando modelli della rottura sismica basati sulla meccanica dei continui e sulla teoria della propagazione delle onde”.
“Questi modelli consentono di calcolare con precisione i campi di spostamento, di deformazione e di stress associati alla rottura di faglia, di generare sismogrammi ‘sintetici’ realistici e di interpretare nel dettaglio i sismogrammi che osserviamo durante un terremoto. I nostri recenti risultati ricordano l’importanza di applicare all’interpretazione dei fenomeni naturali, e in particolare di quelli sismici, teorie e modelli validati da osservazioni geofisiche indipendenti e convergenti”, conclude il ricercatore.
Immagine di copertina: © Metro UK
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Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV)