spazio vuoto logo alto

ICONA Facebook    ICONA Youtube666666   ICONA Flickr666666   ICONA Youtube666666   INGV ICONE social 07   INGV ICONE social 06   ICONA Facebookr999999

fucina di efestoUn’altissima colonna di fumo dalle sembianze di un maestoso pino, con un tronco svettante coronato da una folta chioma scura.

È così che Plinio il Giovane descrive i primissimi effetti della drammatica eruzione del Vesuvio del 79 d.C. in una serie di lettere indirizzate all’amico Tacito.

Un’eruzione che segnerà per sempre la storia e il paesaggio di quell’angolo della nostra penisola, di certo l’eruzione per antonomasia quando si parla del vulcano napoletano. Un vulcano che, nei secoli, non ha mai smesso di affascinare e incuriosire: temuto in quanto espressione pura e imprevedibile della forza della natura, ma al tempo stesso generoso compagno di chi alle sue pendici raccoglieva i frutti del lavoro nei campi.

Le cittadine di Pompei ed Ercolano, sepolte dall’eruzione del 79 d.C. che le ha cristallizzate nel tempo e nello spazio, richiamano ancora oggi un flusso costante di turisti, curiosi, storici e ricercatori alla scoperta di quei segreti ancora nascosti dalla cenere.

È di poche settimane fa, ad esempio, la notizia del ritrovamento nella Casa col Giardino di Pompei di una preziosa collezione di monili in cristallo, ambra, osso e ametista, il “tesoro della fattucchiera”.

Ebbene, un altro “enigma” che negli ultimi anni ha contribuito ad alimentare l’aura di mistero attorno alla grande eruzione del Vesuvio è quello legato alla vera data dell’evento. Infatti, il ritrovamento di un’iscrizione sulla parete di una casa di Pompei sembrerebbe confermare l’ipotesi secondo cui la pioggia incandescente di cenere e lapilli avrebbe colpito la cittadina in autunno e non il 24 agosto, come vuole la tradizione.

Nel mese in cui ci lasciamo alle spalle l’estate per avventurarci verso i primi freddi della nuova stagione, abbiamo ricostruito questa importante scoperta con due ospiti d’eccezione, i ricercatori Sandro de Vita e Giovanni Ricciardi, tra i maggiori esperti dell’INGV del vulcano partenopeo.

Quando si parla del Vesuvio, quella del 79 d.C. è considerata l’eruzione per eccellenza, raccontata dalla letteratura, dalla musica, dal cinema e dall’arte in genere. Vogliamo ripercorrere brevemente gli eventi di quei giorni?

Stando a quanto, a tutt’oggi, si è riusciti a ricostruire, l’autunno era già cominciato da un po’ quando avvenne l’eruzione che sconvolse tutta l’area vesuviana. In realtà già da alcuni anni si stavano verificando fenomeni che oggi avrebbero fatto presagire un risveglio del vulcano, a cominciare dal violento terremoto del 62 d.C. che provocò ingenti danni agli edifici e alle infrastrutture, con ripercussioni che si fecero sentire fino a Napoli.

L’attività sismica è riportata dalle fonti storiche come un fenomeno abbastanza ricorrente nell’area del Vesuvio e, all’epoca dell’eruzione, in tutte le cittadine e nelle residenze rustiche erano in corso lavori di restauro per la riparazione dei danni occorsi soprattutto in occasione del citato terremoto.

Sulla base delle ricostruzioni presenti nelle famose lettere di Plinio il Giovane, possiamo dire che l’eruzione cominciò intorno a mezzogiorno con violente esplosioni freatomagmatiche, che riaprirono il condotto eruttivo del Vesuvio dopo un periodo di quiescenza durato circa tre secoli. A questa fase di apertura seguì l’inizio della fase pliniana vera e propria, con la formazione di una colonna eruttiva che raggiunse i 20 km di altezza e cominciò a disperdere il suo carico di pomici, ceneri e frammenti di rocce verso sud, investendo Pompei, dove si accumulò un deposito spesso circa un metro. Dopo alcune ore, parti della colonna eruttiva, destabilizzata, cominciarono a collassare, formando correnti piroclastiche che scorrevano lungo i fianchi del vulcano, raggiungendo a grande velocità Ercolano e uccidendo molti degli abitanti che si erano radunati lungo la spiaggia per abbandonare la città via mare. L’eruzione poi proseguì con una nuova fase di innalzamento della colonna eruttiva, che raggiunse la quota di 32 km, continuando a riversare su Pompei una pioggia incessante di pomici, ceneri e frammenti di rocce, accumulandosi fino a raggiungere il secondo piano delle case e provocando il cedimento dei tetti.

Collassi parziali della colonna eruttiva causarono altre correnti piroclastiche che distrussero in buona parte la città di Ercolano, fino a che il collasso totale della colonna eruttiva provocò la formazione di una corrente piroclastica che arrivò fino a Pompei, causando vittime e distruzione.

Dopo una breve fase di attività ridotta, durante la quale molti degli abitanti di Pompei si muovevano sopra lo strato di pomici (chi rientrando in città dopo una fuga iniziale, chi decidendosi a lasciare le proprie case), il parziale svuotamento della camera magmatica ne provocò il collasso, probabilmente nel corso della mattina seguente.

Forti terremoti accompagnarono questa fase unitamente a terribili esplosioni, che causarono la formazione di ripetute correnti piroclastiche diluite e turbolente, che devastarono a più riprese il territorio uccidendo tutti gli abitanti sopravvissuti alle fasi precedenti. Questa fase finale dell’eruzione durò alcune ore, sicché, complessivamente, l’eruzione durò meno di due giorni, anche se nei giorni successivi continuarono a riversarsi colate di fango lungo le valli del vulcano.

Quante cose sappiamo con certezza di quell’eruzione e quante altre, invece, devono ancora essere indagate e approfondite dal lavoro degli esperti?

Ciò che sappiamo deriva dallo studio dei depositi lasciati dall’eruzione e dalle cronache storiche, che hanno permesso la ricostruzione dei fatti come li abbiamo sin qui riportati. Molto resta ancora da definire in relazione all’impatto complessivo sulle diverse regioni del territorio, in quanto, come abbiamo visto, i diversi fenomeni verificatisi nel corso dell’eruzione interessarono aree diverse, molte delle quali ancora non indagate e tuttora sepolte sotto i depositi di quell’eruzione e di quelle che seguirono nei secoli successivi.

Tra i dati incerti c’è sempre stata la data esatta dell’evento, anche se recentemente si è giunti a una quadra quasi definitiva. Quali sono stati i tasselli che hanno aiutato nella datazione corretta?

Sebbene una data precisa non sia stata ancora incontrovertibilmente definita, oggi possiamo affermare che l’eruzione avvenne dopo il 7/8 settembre e probabilmente tra il 24 ottobre e il 1° novembre del 79. Tra gli elementi che fanno propendere per questo periodo ricordiamo sicuramente il ritrovamento sotto i depositi dell’eruzione di un denario d’argento che celebra la quindicesima acclamazione dell’imperatore Tito (avvenuta dopo il 7/8 settembre), il ritrovamento a Pompei di un’iscrizione vergata a carboncino su un muro, che riporta la data del 17 ottobre (e che, quindi, non sarebbe potuta essere presente se la devastazione fosse giunta già il 24 agosto) e le date che derivano dalle varie trascrizioni della lettera di Plinio il Giovane (che vanno dal 24 ottobre al 1° novembre, nonostante la più nota riporti la data del 24 agosto). Inoltre, altri indizi, seppur indiretti, della possibile data dell’eruzione tra il 24 ottobre e il 1° novembre sono il ritrovamento sotto la cenere di frutti tipicamente autunnali come fichi secchi, noci, castagne e melagrane, di contenitori del vino già sigillati, di bracieri già in uso nelle case per il riscaldamento degli ambienti e di abiti pesanti indossati dalle vittime.

Quanto è importante il riferimento alla cultura e alle tradizioni del passato per lo studio scientifico di fenomeni geofisici avvenuti in epoche così remote?

Le fonti storiche sono un elemento di fondamentale importanza, in quanto sono o riportano testimonianze dirette di fatti avvenuti nel passato. Tuttavia vanno interpretate alla luce di quelli che potevano essere i condizionamenti culturali dell’epoca a cui risalgono e al netto dei possibili errori di trascrizione occorsi nelle varie riscritture e traduzioni realizzate nel corso dei secoli.

Cos’è che vi appassiona maggiormente nello studio e nella ricostruzione storica delle vicende legate al Vesuvio e quanto queste ultime sono state utili per stilare un “identikit” del vulcano e contribuire alla sua definizione geofisica?

Oltre alla curiosità scientifica, che spinge a ricostruire gli eventi avvenuti nel corso dell’evoluzione di un vulcano, la comprensione quanto più dettagliata e precisa possibile del suo funzionamento passato, desunto dallo studio dei depositi e delle fonti storiche, è sicuramente decisiva per definire un modello di comportamento utile alla formulazione di ipotesi circa il tipo di eruzioni che il vulcano potrà produrre in futuro, la definizione delle aree che potranno essere interessate dalle diverse fenomenologie e il possibile impatto che queste potranno avere sul territorio, consentendo di fatto di valutare correttamente la pericolosità del vulcano e mitigarne il rischio.

Qual è lo stato attuale del Vesuvio?

Oggi il Vesuvio è in uno stato di quiescenza, che perdura dal 1944, anno in cui si è verificata l’ultima eruzione che ha determinato l’ostruzione del condotto eruttivo. In passato il Vesuvio ha alternato periodi di attività persistente, a condotto aperto, caratterizzati da eruzioni effusive ed eruzioni esplosive di energia relativamente modesta, e lunghi periodi di quiescenza a condotto ostruito, di durata plurisecolare o millenaria, interrotti da violente eruzioni esplosive di tipo pliniano o sub-pliniano, che riaprono il condotto e danno il via a un nuovo periodo di attività persistente.

Per gli abitanti di Napoli oggi il Vesuvio è più uno “straniero” o un “concittadino” con cui interagire?

Il rapporto degli abitanti dell’area napoletana con il vulcano è molto complesso e per comprenderlo bisogna andare molto indietro nel tempo, risalendo alle motivazioni che, a partire dal Neolitico, hanno spinto le antiche popolazioni a insediarsi in quest’area a dispetto del pericolo posto dal Vesuvio e dagli altri vulcani attivi qui presenti, come la caldera dei Campi Flegrei e l’isola d’Ischia. La posizione geografica favorevole agli scambi commerciali, il clima ottimale e il terreno fertile creato proprio dall’attività vulcanica, oltre alla disponibilità di rocce e materiali adatti alle costruzioni, hanno fatto sì che le popolazioni che si sono avvicendate su questo territorio abbiano sempre trovato vantaggioso insediarvisi, sfruttando tra l’altro i lunghi periodi di quiescenza dei vulcani e tornando a occupare le stesse aree anche dopo devastanti eruzioni. In particolare il Vesuvio, con la sua mole che si impone sul paesaggio e con la sua attività che è perdurata fino al passato recente, rappresenta il vulcano per eccellenza e, per i napoletani, finisce per essere al tempo stesso nume tutelare e minaccia costante, con il timore reverenziale che incute in grado di oscurare il pericolo connesso con gli altri vulcani di quest’area. Basti pensare che, nel tempo, molti sociologi hanno attribuito a questo rapporto con il vulcano il proverbiale (e per certi versi oleografico) fatalismo e l’indolenza del popolo partenopeo, abituato a vivere nella precarietà di un’esistenza vissuta ai piedi del gigante.

Link all’approfondimento sul Blog INGVvulcani