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Ceneri finissime, invisibili a occhio nudo, che si depositano nei sedimenti presenti in ogni angolo del nostro Pianeta e custodiscono la storia del nostro mondo. Può sembrare l’inizio di un racconto fantastico, arricchito di polvere magica e atmosfere oniriche, ma in realtà è quanto di più concreto abbiamo scoperto in Antartide.

Per andare a fondo di questa storia dobbiamo infatti volare fino al Polo Sud, dove un team internazionale di ricercatori guidati dall’INGV ha recentemente concluso un Progetto di ricerca portando a casa dei risultati che aprono a nuove prospettive nella conoscenza della storia eruttiva del continente antartico.

Sì, perché dall’attenta analisi dei microscopici prodotti delle eruzioni che in passato hanno sconvolto il continente di ghiaccio, una scienza nota come tefrocronologia è riuscita a ricostruire la dinamica di alcune eruzioni avvenute nell’Olocene e a ‘sincronizzare’ la storia dei sedimenti marini provenienti dal Mare di Ross con quella dei sedimenti glaciali prelevati sul continente antartico.

Abbiamo intervistato Alessio Di Roberto, ricercatore dell’INGV e responsabile del Progetto TRACERS da poco concluso, per scoprire cosa si cela nelle microscopiche particelle intrappolate tra i ghiacci dell’Antartide e come questi ‘tefra’ possono aiutare a scrivere la storia del nostro Pianeta.

Alessio, cos’è la tefrocronologia? 

Fucina1Nell’accezione più ampia del termine data in letteratura, la tefrocronologia è quella scienza che si occupa di studiare i tefra, ovvero dei prodotti piroclastici emessi durante le eruzioni vulcaniche esplosive a tutte le scale, da quelle più piccole a quelle più grandi senza alcuna distinzione di composizione, tessitura o granulometria. 

La tefrocronologia studia i depositi piroclastici prodotti dalle eruzioni e li caratterizza nel modo più dettagliato possibile (granulometria, forma delle particelle, minerali, composizione chimica del vetro vulcanico, ecc…) per identificare l’eruzione da cui essi derivano: in altre parole, si studiano gli ‘archivi’ geologici (i cosiddetti record), si identificano i tefra presenti al loro interno, si caratterizzano questi prodotti nel modo più dettagliato possibile e, infine, si cerca di individuare l’eruzione che li ha prodotti.

Nell’accezione più ristretta, invece, per tefrocronologia si intende la scienza che si occupa nello specifico di caratterizzare i tefra e di dargli un’età numerica: in tal modo, dando una datazione a un certo tefra individuato all’interno di un record geologico, archeologico, climatico o ambientale, è possibile perfino correlare e sincronizzare tra loro record molto diversi tra loro (provenienti, ad esempio, dall’ambiente marino, da quello glaciale o da quello lacustre). Questo grazie a due caratteristiche “speciali” dei tefra stessi: la prima è che nel momento in cui vengono eruttati, i tefra vengono dispersi quasi istantaneamente (nell’arco di poche ore o al massimo di qualche giorno) su aree vaste anche milioni di chilometri quadrati. Basti pensare che, ad esempio, l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll del 2010, che fu un’eruzione relativamente ‘piccola’, disperse ceneri vulcaniche praticamente su tutta l’Europa del Nord, ovvero su una superficie di quasi 2 milioni e mezzo di chilometri quadrati. Quindi, laddove viene identificato, un dato tefra ha virtualmente la stessa età.

L’altra ragione che consente di utilizzare i tefra per correlare tra loro record geologici di diversa natura riguarda la loro capacità di essere datati e caratterizzati abbastanza facilmente: nel momento in cui si riesce a datare un tefra e a ricondurlo a una determinata eruzione vulcanica, infatti, si ottiene una vera e propria isocrona, ovvero un ‘livello guida’ che permette di datare tutti i record in cui quel tefra viene individuato e di sincronizzarli tra loro.

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Che vantaggi può offrire la tefrocronologia alla ricerca scientifica?

Il vantaggio fondamentale che offre la tefrocronologia è che virtualmente non ha limiti dal punto di vista del range temporale entro cui può essere applicata. Il metodo del carbonio-14, ad esempio, ha un limite indicativo di applicazione intorno ai 60.000 anni: ciò significa che non è possibile datare ‘cose’ più vecchie di 60.000 anni con il metodo del carbonio-14. La tefrocronologia, al contrario, può essere applicata a eruzioni estremamente giovani, come le eruzioni storiche, ma anche a eruzioni avvenute milioni di anni fa. 

Inoltre, come dicevo, questa scienza può essere utilizzata in qualsiasi archivio, che sia esso un archivio geologico, archeologico, climatico o ambientale: dal ghiaccio, al mare, al continente, passando per i laghi e i sedimenti. 

In un articolo pubblicato sul Blog INGVvulcani hai parlato di “rivoluzione dei criptotefra”: cosa significa?

Quella non era tutta farina del mio sacco, devo confessarlo! In realtà facevo riferimento a un bellissimo articolo che ha cambiato un po’ la storia della tefrocronologia, intitolato “Criptotefra: la rivoluzione nella correlazione e nella datazione precisa” e pubblicato da Siwan M. Davies nel 2015 sulla rivista ‘Journal of Quaternary Science’ (qui il link).

Cosa significa: beh diciamo che, rispetto ai tefra macroscopici (visibili a occhio nudo), i criptotefra, ovvero i tefra sottilissimi che non sono visibili a occhio nudo ma che sono identificabili con tutta una serie di analisi specifiche, possono darci indicazioni su eruzioni generate in aree molto distanti dal sito che si sta osservando o anche su eruzioni locali di energia molto piccola.

In altre parole, i criptotefra non fanno che aumentare il numero di eruzioni che è possibile studiare e datare all’interno di un record, aumentando sensibilmente il livello di dettaglio dello studio.

Faccio alcuni esempi: studi relativamente recenti effettuati sui criptotefra individuati in carote di sedimenti prelevate nel mare Adriatico hanno rivelato la presenza dei depositi di decine eruzioni vulcaniche che prima non erano state identificate. Ancora, nel 2017 le ceneri della super eruzione di Oruanui, avvenuta oltre 27.000 anni fa in Nuova Zelanda, sono state individuate in forma di criptotefra nei ghiacci antartici, in un'area distante oltre 5.000 chilometri dal sito dell’eruzione. Stessa cosa è accaduta per l’eruzione dell’Ignimbrite Campana, avvenuta circa 39.000 anni fa nell’area dei Campi Flegrei, le cui ceneri sono state rinvenute fino in Russia, a oltre 3.000 chilometri dalla sorgente, e sono oggi utilizzate come ‘marker guida’ per tutta l’Europa dell’Est.

Senza la scoperta dei criptotefra, quindi, non avremmo potuto annoverare nessuna di queste eruzioni in quei record geologici. 

Lo scorso mese di marzo si è concluso in Antartide TRACERS, un Progetto di ricerca che ha visto l’INGV capofila e che ha molto a che fare con questa “rivoluzione dei criptotefra”: vuoi raccontarci cosa avete scoperto?

Fucina1Innanzitutto per me è importante ricordare che TRACERS è stato un Progetto multidisciplinare che, oltre all’INGV in qualità di capofila, ha coinvolto l’Istituto di Scienze Polari del CNR di Bologna, il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Trieste e l’Università di Oxford, oltre che numerosi altri collaboratori provenienti da tutta Europa.

L’ambizione del Progetto era identificare all’interno dei sedimenti marini del Mare di Ross, uno dei mari appartenenti all’Oceano Meridionale, i depositi di grandi eruzioni esplosive provenienti dai vulcani antartici: a quasi un anno dalla conclusione dei lavori posso dire con un certo orgoglio che gli obiettivi sono stati ampiamente raggiunti. 

Abbiamo infatti identificato i depositi di almeno quattro, forse cinque, grandi eruzioni dei vulcani antartici Monte Rittmann e Monte Melbourne avvenute nell’Olocene e tardo Pleistocene che in precedenza erano completamente sconosciute. Stiamo parlando di eruzioni da subpliniane a caldera-forming, quindi eruzioni davvero molto grandi. 

Con il nostro lavoro siamo riusciti a “trasformare” i tefra che abbiamo identificato all’interno dei sedimenti prelevati nel Mare di Ross in dei veri e propri ‘orizzonti guida’: ciò significa che grazie ai risultati del nostro studio qualsiasi altro ricercatore che un domani dovesse approcciarsi allo studio di sedimenti marini in quell’area e trovasse un tefra con determinate caratteristiche, potrebbe ricollegarlo a tutto il bacino del Mare di Ross, dare a quel tefra un’età e quindi, a sua volta, dare un’età alla sequenza che starà studiando.

Inoltre, una novità assoluta è che per la prima volta siamo stati in grado di identificare nei sedimenti marini un livello di tefra che era ampiamente riconosciuto all’interno delle sequenze glaciali, riuscendo per la prima volta a collegare l’ambiente sedimentario marino con quello glaciale: può sembrare una ‘banalità’, ma in realtà è un traguardo molto importante perché l’ambiente marino e quello continentale (in particolare quello glaciale) non hanno la stessa risposta ai fenomeni di forcing climatico (ovvero quei fenomeni che hanno un peso di un fattore nel meccanismo dei mutamenti climatici) ma, viceversa, hanno spesso risposte non sincrone. Riuscire, quindi, a correlare e a ‘sincronizzare’ queste due tipologie di ambiente è stato ed è molto importante per capire come si comportano due ambienti diversi davanti allo stesso fenomeno.

“Vulcani antartici” può sembrare un ossimoro, ma abbiamo visto che in realtà non lo è affatto: quali sono, allora, i più importanti vulcani presenti nel continente antartico?

È vero, può sembrare una stranezza ma in realtà l’Antartide è un continente estremamente ricco di vulcani: sul suo territorio ce ne sono diverse decine, molti dei quali sono ancora attivi. Tracce del vulcanismo antartico più recente, che conosciamo meglio, si possono ritrovare fino a circa 30 milioni di anni fa, ma nei depositi geologici esistono evidenze di un vulcanismo ancora più antico. 

Tra i vulcani antartici considerati ancora attivi ricordiamo il Monte Erebus, uno dei pochi vulcani al mondo in attività permanente che presenta sulla sua sommità un lago di lava, e Deception Island, che ha avuto eruzioni anche molto recenti nel 1969-70.

Anche molti altri vulcani come quelli che abbiamo studiato con il Progetto TRACERS, penso al Monte Rittmann, al Monte Melbourne o, spostandoci nella Marie Byrd Land, al Monte Berlin, hanno evidenze di attività eruttiva storica o comunque piuttosto recente.

L’Antartide, quindi, è sicuramente un continente estremamente ricco di vulcani, molti dei quali sono peraltro subglaciali: oltre ai grandi edifici vulcanici visibili in superficie, infatti, numerosi studi ipotizzano ragionevolmente che possano esistere alcune altre decine di vulcani nascosti sotto il ghiaccio.

Quali dinamiche geologiche hanno portato alla loro formazione?

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Le dinamiche geologiche che hanno portato alla formazione dei vulcani antartici sono molteplici e del tutto analoghe a quelle che hanno portato alla formazione dei vulcani in tutto il resto del globo: si parte da un vulcanismo di tipo rifting, che è quello più recente e che ha origine dal WARS, il West Antarctic Rift System, uno dei sistemi rift più grandi e sviluppati al mondo, fino a giungere a un vulcanismo più antico (da quello di retroarco, il classico vulcanismo che caratterizza - ad esempio - anche le Isole Eolie, fino al vulcanismo intraplacca con i suoi ‘punti caldi’ in cui il magma risale dal mantello attraverso la crosta terrestre).

L’Antartide è un continente molto vasto e, come abbiamo visto, racchiude al suo interno la maggior parte delle dinamiche magmatologiche e vulcanologiche che ci sono nel resto del Pianeta.

Tornando a TRACERS e guardando al prossimo futuro, che scenari possono aprire i risultati che avete ottenuto?

Dal punto di vista puramente vulcanologico, l’aver individuato queste quattro o cinque eruzioni dei vulcani antartici avvenute nell’Olocene e tardo Pleistocene ci permette prima di tutto di capire che il record delle eruzioni - esplosive e non - nel continente antartico è ancora fortemente incompleto, non si conosce ancora molto bene quante e quali siano state le eruzioni in passato (né di che entità).

I risultati del nostro Progetto però ci permettono di cominciare a tracciare una via nella conoscenza della storia eruttiva di diversi vulcani in Antartide; inoltre, descrivendo in modo accurato la taglia e la dinamica di queste eruzioni, si può iniziare a valutare quale sia il potenziale rischio associato alle eruzioni stesse.

Quest’ultimo aspetto sta diventando sempre più importante perché tanto il turismo antartico quanto, soprattutto, la frequentazione delle basi antartiche da parte dei ricercatori sta crescendo sempre di più. Basti pensare che in prossimità del Monte Rittmann, che negli ultimi 11.000 anni ha prodotto almeno due grandi eruzioni, sono collocate ben quattro basi scientifiche stabili: l’italiana Mario Zucchelli, quella tedesca, quella coreana e quella cinese in fase di costruzione.

Infine, come dicevo prima, TRACERS e Progetti come il nostro hanno aperto una serie piuttosto ampia di prospettive nell’ambito degli studi paleoclimatici e paleoambientali, dimostrando che i livelli di tefra possono essere utilizzati per correlare, sincronizzare e datare ambienti molto diversi tra loro, come ad esempio l’ambiente marino e quello continentale, che rispondono in modo molto diverso e spesso asincrono ai forcing dei cambiamenti climatici.

Link all’approfondimento sul Blog INGVvulcani