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C’è uno strano pregiudizio che ruota attorno al fango e che lo fa immaginare come qualcosa di poco gradevole: sarà forse per l’idea di polvere sterile, di terra umida, di pioggia e di pozzanghere a cui solitamente si associa. Ma in geologia in realtà il fango è una incredibile miniera di preziose informazioni sul nostro pianeta e sul suo complesso funzionamento.

Un materiale presente sulla superficie terrestre in corrispondenza degli affioramenti di argilla, ma anche generato da fenomeni geologici che sono espressione della vivace attività della Terra. Tra questi ve ne sono alcuni particolarmente curiosi e interessanti, degli “pseudo-vulcani”: si tratta dei vulcani di fango, delle manifestazioni di dimensioni generalmente contenute dalle quali è però possibile ricavare delle importanti informazioni scientifiche.

Abbiamo scoperto i vulcani di fango dell’Etna, particolarissimi pseudo-vulcani situati nella zona sud-occidentale del vulcano siciliano, insieme a Salvatore Giammanco, vulcanologo e geochimico dell’INGV nonché esperto e appassionato delle Salinelle di Paternò.

Salvo, quali fenomeni geologici sono solitamente associati alla presenza di fango?

La stragrande maggioranza dei vulcani di fango e delle eruzioni fangose, a dispetto di quanto si possa pensare, non sono in realtà associate al vulcanismo classico, bensì ad aree tettoniche e aree sismiche in cui siano presenti degli importanti fenomeni di fagliazione. In generale, si tratta quindi di fenomenologie associate alla presenza di grossi bacini sedimentari fratturati da faglie attraverso le quali risalgono dei fluidi fangosi.

Cosa si intende per “vulcano di fango”?

Si tratta di emergenze di fango che si manifestano su un sostrato argilloso mobilizzato da fluidi, essenzialmente acque salmastre, gas di origine profonda (quasi sempre metano biogenico e, occasionalmente, anche anidride carbonica magmatica) e parti solide organiche decomposte.

Come si formano?

Il concetto di fondo è che la stragrande maggioranza dei vulcani di fango è legata ad accumulo di materiale organico all’interno degli strati più superficiali della crosta, formando quindi dei bacini di grande sedimentazione e di rapida copertura di materia organica, come le foreste. Questa materia organica, decomponendosi nel tempo, produce idrocarburi, soprattutto metano: la maggior parte dei vulcani di fango sono infatti generati dalla risalita di gas metano che trascina con sé anche altri gas e idrocarburi più pesanti, a volte perfino petrolio, il tutto associato a dei bacini sedimentari che vengono poi fratturati: la condizione “perfetta” che porta alla formazione di un vulcano di fango è quindi un bacino sedimentario fagliato da grosse strutture tettoniche profonde, magari anche sismogenetiche.

I vulcani di fango dell’Etna però non rientrano in questa fattispecie…

No, esatto, questo perché come in tutti i fenomeni naturali esistono anche qui delle eccezioni: le Salinelle di Paternò rappresentano appunto una delle pochissime eccezioni a questa regola, poiché in questo caso, ai margini sud-occidentali dell’Etna, abbiamo dei vulcani di fango anomali, in cui è presente il metano ma questo rappresenta appena il 10-20% della composizione gassosa. Il resto del gas è gas magmatico, proveniente dai serbatoi del vulcano. I vulcani di fango dell’Etna sono, quindi, uno dei pochi esempi al mondo di mescolamento in un unico sito di gas superficiali organici e gas profondi magmatici.

Dove sono localizzati prevalentemente i vulcani di fango nel mondo?

La distribuzione dei vulcani di fango sul nostro pianeta non è omogenea. Come dicevo prima, si trovano essenzialmente dove vi siano sia grossi bacini sedimentari sia, soprattutto, faglie tettoniche (anche attive), in grado di mantenere una permeabilità del terreno sufficientemente ampia da permettere la fuoriuscita di gas, fluidi e fango. La maggior parte dei vulcani di fango sono quindi allineati lungo le strutture tettoniche principali, nelle aree sismogenetiche più importanti del nostro pianeta. Tanto è vero che spesso, in passato, il monitoraggio dell’attività di questi vulcani di fango ha permesso di notare delle variazioni in qualche modo correlate con l’attività sismica locale.

Che caratteristiche hanno nello specifico i vulcani di fango dell’Etna?

Sono delle emissioni in superficie di fluidi ad alta salinità osservate da lunghissimo tempo, si stima da almeno 10.000 anni, e localizzate in tre principali siti nei dintorni di Paternò, in provincia di Catania. Il nome “Salinelle” deriva proprio dalla coltre biancastra di sale che si forma, soprattutto nel periodo estivo, attorno alle bocche eruttive.

Grazie al particolare ambiente che si viene a formare nello strato più superficiale della crosta, legato, come dicevo prima, alla commistione tipicamente locale tra fluidi magmatici profondi e fluidi sedimentari organici più superficiali, abbiamo qui una notevole deposizione di minerali, quali ad esempio ossidi di ferro, idrossidi di ferro, solfuri di vario genere, carbonati, che permettono in quest’area, grazie alla presenza di CO2, una grande deposizione soprattutto di travertino. In effetti, per quanto curioso, il territorio compreso nella fascia sud-occidentale dell’Etna è in realtà tra le più importanti zone di deposizione del travertino dopo quella di Roma e dei vulcani laziali.

Oltre al travertino in grande quantità abbiamo, alle Salinelle di Paternò, dei minerali bellissimi e coloratissimi, con una palette di colori che va dal rosso sangue, all’arancione, al giallo e all’ocra. Non solo fango, quindi, ma anche emissioni altamente saline che creano questi crostoni colorati, di una bellezza incredibile. E questa è una caratteristica peculiare delle Salinelle di Paternò: gli altri vulcani di fango nel mondo raramente presentano questo tipo di deposizioni così complesse e variegate. 

Quando è nata la tua passione per i vulcani di fango di Paternò?

Direi che la mia passione è nata inizialmente come “semplice” passione per i vulcani quando avevo circa cinque anni e, dalla mia casa di Palermo, ho visto in TV l’Etna in eruzione rimanendo affascinato dalle immagini delle colate laviche. Anni dopo mi sono trasferito a Catania, dove ho studiato e ho iniziato ad apprezzare anche altri aspetti delle Scienze della Terra, legati soprattutto ai fluidi che circolano nella crosta terrestre e alle incredibili fenomenologie che sono proprio i vulcani di fango. Il primo approccio con loro l’ho avuto più di trenta anni fa proprio alle Salinelle di Paternò. Da lì, accanto alla mia professione di vulcanologo “classico”, ha preso le mosse anche quella di geochimico interessato a questi fenomeni naturali noti anche come “pseudo-vulcani”.

Che tipo di informazione scientifica è possibile ricavare dai fanghi delle Salinelle?

Gli “pseudo-vulcani” di Paternò ci permettono di ottenere delle informazioni scientifiche che hanno un impatto non solo sulla conoscenza degli ambienti tipici dei vulcani di fango, in generale, ma anche sull’aspetto biologico del fenomeno. In passato abbiamo trovato piccolissime forme di vita all’interno del fango, piccoli esseri viventi che, incredibilmente, riescono a sopravvivere in un ambiente così estremo, in quasi totale assenza di ossigeno, ricco di CO2 e di zolfo. Un ambiente assolutamente particolare. Lo studio delle fasi minerali che vengono a depositarsi in superficie ci consente quindi di capire quali minerali si formano in quelle condizioni così peculiari: un ambiente estremo, paragonabile a quello delle prime fasi di vita sulla Terra.

In che modo lo studio della composizione dei fanghi può contribuire alla conoscenza del vulcano?

Il monitoraggio di queste emissioni nel tempo ci permette di capire meglio le dinamiche profonde dell’Etna poiché, come dicevo prima, gran parte dei fluidi che alimentano i vulcani di fango delle Salinelle di Paternò sono in effetti fluidi magmatici che provengono, secondo stime effettuate in vari studi da colleghi della Sezione di Palermo dell’INGV, da profondità piuttosto significative, comprese tra i 9 e i 15 chilometri. Osservare, quindi, delle variazioni o degli aumenti nelle emissioni di gas in quella zona significa poter capire con un discreto anticipo se il vulcano sta preparando delle nuove fasi e dei nuovi cicli eruttivi. In questo modo è quindi possibile tracciare l’inizio delle nuove fasi di attività dell’Etna molti mesi prima che si manifestino in superficie con delle eruzioni magmatiche. Come sito, quindi, quello delle Salinelle di Paternò diventa fondamentale per monitorare l’attività del vulcano principale.

In che modo l’INGV monitora queste emissioni fluide e quali saranno i prossimi passi in questa direzione?

I fluidi che vengono emessi dalle Salinelle sono fluidi caldi, che arrivano in superficie con una temperatura che normalmente è di circa 30-35°C, ma che, durante le fasi parossistiche, ovvero durante le forti eruzioni di fango, arrivano a sfiorare i 50°C. Studi effettuati già diversi anni fa sulla stima delle temperature del serbatoio crostale, ovvero l’ultimo che alimenta l’attività dei vulcani di fango, forniscono temperature che sfiorano i 130-140°C. I prossimi passi in questa direzione saranno quindi orientati a comprendere se abbiamo a che fare, come io penso, con un serbatoio geotermico sostanzialmente infinito che è alimentato di calore proprio dall’Etna e se, attraverso ulteriori prospezioni e parametrizzazioni, sia possibile sfruttare questo sistema per ciò che riguarda la potenzialità geotermica dell’area.

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