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Il 25 novembre 1343, nel giorno in cui si festeggia Santa Caterina, Napoli fu stravolta da un disastroso maremoto. Testimone dell’evento fu il poeta Francesco Petrarca che si trovava in missione diplomatica nel Regno di Napoli in veste di ambasciatore, inviato da Papa Clemente VI. Petrarca descrisse dettagliatamente il cataclisma nel quinto libro delle sue Epistolae familiares. Per sapere cosa accadde quella notte e come il poeta visse l’evento abbiamo intervistato Giovanni Ricciardi, ricercatore associato presso l’Osservatorio Vesuviano dell’INGV. Giovanni ha trattato l’argomento nella sua opera del 2009 Diario del Monte Vesuvio: Venti secoli di immagini e cronache di un vulcano nella città.

Giovanni, facciamo un salto indietro nel tempo. Com’era Napoli nel 1300?

Era un periodo di particolare splendore per la città di Napoli. Nel febbraio del 1266, con la vittoria di Carlo I d’Angiò a Benevento sulle truppe sveve, si instaurò la lunga dominazione angioina, la quale diede inizio a un periodo di intensa attività artistica. Gli Angioini, infatti, invitarono a Napoli i rappresentanti delle maggiori scuole pittoriche italiane dell’epoca come Pietro Cavallini da Roma, Giotto da Firenze, Simone Martini da Siena. Molti altri artisti di grande fama arrivavano da ogni luogo della penisola per lavorare alla costruzione di edifici religiosi e civili e monumenti. Fu così che l’antico centro della città divenne prevalentemente un’area conventuale con la costruzione della chiesa di Santa Chiara, la Basilica di San Domenico Maggiore, il Duomo, la Basilica di San Lorenzo e Sant’ Eligio, mentre i centri istituzionali, le attività commerciali e di difesa, trovarono la loro sede sulla fascia costiera, intorno alla nuova residenza reale del Castel nuovo, detto Maschio Angioino. Vennero inoltre ingranditi e abbelliti il porto e Castel dell’Ovo. In quello stesso periodo, nel 1325, sulla collina più alta del Vomero iniziò la costruzione di Castel Sant'Elmo, il "Palatium castrum", i cui lavori si conclusero nel 1343 sotto il regno di Giovanna I d’Angiò. Sicuramente è da ritenere che il massimo splendore della dominazione Angioina fu raggiunto sotto il regno di Roberto d’Angiò (1309-1343) che per il Boccaccio era “Re saggio”, per il Petrarca “Re docto”, per Dante “Re da sermone”. Il giudizio negativo di quest’ultimo fu probabilmente dovuto alla politica anti guelfa di Roberto. Alla sua morte, in mancanza di eredi maschi, per la prematura scomparsa del figlio Carlo III duca di Calabria, destinò il regno alla nipote diciassettenne Giovanna I d’Angiò che regnò dal 1343 al 1381.

Cosa accadde quel 25 novembre del 1343?

Quello che accadde la notte del 25 novembre ci viene tramandato da alcune fonti sia coeve che successive. Testimone oculare degli eventi fu Francesco Petrarca che si trovava a Napoli da qualche giorno. Alloggiava nel convento di San Lorenzo, era da poco passata la mezzanotte quando furono avvertiti per tutta Napoli un fortissimo boato e un terremoto che scosse il monastero dalle fondamenta.

Scrive Petrarca: “Serrata la finestra mi posi sopra il letto, ma dopo avere un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un rumore e un terremoto, il quale non solo aperse le finestre, e spense il lume ch’io soglio tenere la notte, ma commosse dai fondamenti la camera dov'io stava”. La situazione peggiorò quando un violento temporale e un maremoto devastarono l’intero golfo di Napoli e Salerno. Secondo Petrarca, i fenomeni interessarono l’intero Mediterraneo: “si dice che questa tempesta abbia infuriato lungo tutto l’Adriatico, il Tirreno e per ogni dove.” A conferma di ciò, alcune cronache provenienti da Malta riportano che la notte del 25 novembre del 1343 si ebbe la formazione di un cratere nel villaggio di Misrah Tal-Maqluba di circa 50 metri di diametro, 15 metri di profondità e un'area di circa 4.765 metri quadrati e che a causa di ciò si generò un maremoto che distrusse l'intera flotta turca ancorata a largo dell’Isola. Una leggenda dell’Isola narra che alcuni angeli scesero dal cielo e sradicarono il villaggio gettandolo in mare, dove oggi sorge l’isoletta di Fiflam..

Quali furono le cause del disastroso evento?

La natura dell’evento è ancora in parte sconosciuta, Petrarca parla anche di un terremoto ma di questo, al momento, non abbiamo riscontro. Quel che è certo è che ci fu un disastroso maremoto e sulle cause dello stesso, nel tempo, sono state avanzate varie ipotesi esogene ed endogene. Escludendo la suggestiva ipotesi dell'impatto di un piccolo meteorite lungo la costa maltese, la più accreditata teoria esogena per giustificare la “insignem tempestatem” di Petrarca, è stata la formazione tra il 24 e il 25 notte di un meteo tsunami. Un fitto gradiente barico orizzontale, si sarebbe posizionato sul Mediterraneo centrale, agevolando la genesi delle onde anomale. Tra le cause endogene, invece, si è ipotizzata in primo luogo una frana sottomarina dell’isola d’Ischia determinata dall’instabilità posteruttiva dei versanti, dato che nel 1302 era avvenuta l’eruzione dell’Arso. Recentemente studi più approfonditi dell’evento, merito di una collaborazione interdisciplinare tra vulcanologi e archeologi, hanno fatto ipotizzare un'ingente frana avvenuta a Stromboli. Un'eruzione o un terremoto avrebbe innescato il collasso della Sciara del Fuoco, provocando il maremoto del 1343 che si sarebbe propagato fino alle coste campane.

E le conseguenze?

La mattina Petrarca si recò sul grande molo di Napoli ormai distrutto e invaso dalle acque. Il poeta scrive “Il terreno su cui ci trovavamo, eroso dalle acque che vi erano penetrate, franò velocemente; Noi, in terraferma, a stento ci siamo salvati, nessuna nave resse ai flutti né in alto mare e neppure nel porto. Una sola fra tante, carica di malfattori, si salvò. La loro nave, pesante, molto robusta e protetta da pelli di bove, dopo aver sostenuto sino al tramonto la forza del mare, alla fine cominciava anch’essa a cedere. E così, mentre lottavano e a poco a poco affondavano, avevano protratto il naufragio sino a sera; spossati alla fine, cedute le armi, si erano raccolti nella parte superiore della nave quand’ecco, al di là di ogni speranza, il volto del cielo rasserenarsi e calmarsi l’ira del mare ormai stanco.

Le fortificazioni, i cantieri navali, i magazzini e le attrezzature marittime del porto di Napoli, furono sommerse dalla sabbia e dalle acque, numerose navi affondarono e molti uomini persero la vita. La chiesa di San Pietro martire, ancora in costruzione, fu notevolmente danneggiata dal maremoto, così come la chiesa di Piedigrotta, vicinissima alla spiaggia.  I danni erano ingenti lungo tutta la costa campana e oltre Napoli, il “mare latrone”, inghiottì Amalfi per una terza parte del suo suolo e anche a Pozzuoli i danni furono considerevoli: il ponte levatoio della città fu distrutto, il pubblico acquedotto interrato e varie case della città rase al suolo.

Perché il poeta Petrarca si trovava a Napoli in quel periodo?

In quel periodo sono attestate due presenze del Petrarca a Napoli: la prima nel 1341 e la seconda nel 1343, quando da poco regnava la giovane diciassettenne Giovanna I. Nel 1341 Francesco Petrarca, per la grande considerazione che aveva del sovrano Roberto d’Angiò, volle fermarsi per tre giorni a Napoli per sottoporsi a un giudizio del Re affinché il prestigioso sovrano lo dichiarasse degno della corona poetica in Campidoglio, riconoscimento oggi paragonabile al Nobel per la Letteratura. Nel 1343 Petrarca visitò Napoli in qualità di ambasciatore per risolvere i difficili affari di stato che erano subentrati alla morte di re Roberto il 16 gennaio del 1343. Su preciso incarico del Cardinale Colonna e del Papa Clemente VI, Petrarca intervenne ufficialmente presso il Gran Consiglio per portare la voce del romano pontefice che, da Avignone, lamentava il diritto di nominare un suo vicario per la minore età di Giovanna. La missione si tradusse in un insuccesso diplomatico.

Come visse Petrarca l’evento del 25 novembre?

Petrarca nella sua lettera indirizzata al Cardinale Giovanni Colonna non fa mistero delle sue paure e ansie. Paure cominciate già qualche giorno prima, in quanto nella città correva voce che il Vescovo di Ischia Guglielmo, appassionato di Astronomia, avesse predetto per il giorno 25 un fortissimo terremoto. Questa previsione aveva riempito di terrore gran parte del popolo, che abbandonata ogni consueta occupazione, affollava le chiese per pentirsi e mutar vita in questo punto di morte. “Io d’altra parte avevo visto ed udito in quei giorni minacciosi segni del cielo che, per quanto abituato ad abitare in gelide regioni, apparendomi come mostri nel freddo inverno, mi avevano gettato nello spavento e reso quasi superstizioso”. Dopo la mezzanotte un forte boato e un terremoto spalancò le finestre e fece tremare tutto il convento: ”Ci affrettiamo tutti verso la chiesa, e qui giunti, genuflessi, pernottiamo nel pianto, certi ormai che la fine fosse imminente e che ogni cosa attorno rovinasse”. Petrarca conclude amaramente questa terribile esperienza giurando che non avrebbe più intrapreso un viaggio per mare: “Io ne trarrò solo questa conclusione: pregarti che tu non voglia più ordinarmi d’affidare la mia vita ai venti e alle onde. In questo non vorrei ubbidire né a te, né al Pontefice Romano e neppure a mio padre, se tornasse in vita. Lascio il cielo agli uccelli e il mare ai pesci; animale terrestre, scelgo un viaggio terrestre”.

Sono arrivate a noi altre testimonianze? Cosa riportano?

Sì, tra le fonti coeve all’evento oltre alla lettera di Petrarca datata 26 novembre 1343 indirizzata al Cardinal Giovanni Colonna, troviamo le cronache di Giovanni Villani e un manoscritto della biblioteca del Conte di Misciagna. Altri autori del XVI e XVII secolo praticamente riprendono le cronache di Petrarca e di Villani in numerosi scritti.

Possiamo oggi scorgere in città dei “segni” di quell’evento?

Sì, ancora oggi si possono osservare nella zona del porto due chiese: quella di San Giovanni Battista a mare costruita nel XII secolo e quella di Santa Maria dell’Incoronata del XIV secolo, interrate sotto il livello stradale. Queste chieste furono colpite dal maremoto e vennero coperte dai sedimenti. Furono gli aragonesi ad avviare le operazioni di bonifica e a scavare per renderle nuovamente accessibili.

Altre località con tracce di quell'evento purtroppo furono cancellate per motivi sanitari, in quanto le zone del porto, notoriamente sempre malsane e abitate da povera gente, furono rase al suolo dalla bonifica.

Negli anni ottanta del XIX secolo il degrado toccò punte estreme: e tra il 1835 ed il 1884 a Napoli si verificarono ben nove epidemie di colera.

Sotto la spinta dell'opinione pubblica, dopo l'ultima epidemia si cominciò a considerare un intervento di risanamento urbano. Il piano prevedeva la demolizione di interi vecchi quartieri per la creazione di un asse viario il "Rettifilo", che ha la funzione di collegamento est-ovest, tra ferrovia e via Medina, inoltre si realizzava all'altezza di via Duomo, una rapida comunicazione nord-sud fra via Foria e via Marina, inutilmente tentata per tanti anni. Contemporaneamente con il materiale di risulta venne effettuata la colmata a mare nella zona del porto, seppellendo di fatto l'antico insediamento portuale angioino e con esso il ricordo di quella notte tragica per Napoli.